Fabrizio De Andrè. Doppio lungo addio by Massimo Bubola

Fabrizio De Andrè. Doppio lungo addio by Massimo Bubola

autore:Massimo Bubola [Bubola, Massimo]
La lingua: ita
Format: epub
editore: Aliberti
pubblicato: 2012-09-19T19:37:56+00:00


musica reggae che da leggerezza al brano e completa i colori dell’album.

/ colori dell’album?

Noi facevamo così: a ogni canzone davamo un colore e poi vedevamo l’effetto cromatico complessivo. Lo facevamo davvero, non solo metaforicamente. Prendevamo dei fogli bianchi e delle matite colorate. Poi tracciavamo delle grandi sbarre una vicina all’altra. Immagina un maglione di Missoni. Ci interessava capire se i fili di stoffa stavano bene insieme o se mancava, invece, qualche tonalità, qualche sfumatura. Sceglievamo il tessuto del disco.

Ti ricordi qualche colore abbinato alle canzoni?

«Fiume Sand Creek», per dire, era rosso sangue; «Hotel Supramonte» bianco neve e verde scuro; «Se ti tagliassero a pezzetti» era giallo oro all’inizio e viola alla fine.

All’album L’Indiano mancava un verde chiaro. Così scrivemmo «Verdi pascoli», che fu appunto l’ultima canzone a essere scritta. Come l’architrave sopra una porta. Non abbiamo fatto altro che applicare le linee del cromatismo poetico su cui avevano teorizzato molti, compreso Rimbaud.

Dentro «Verdipascoli» non c’è solo il cromatismo sonoro, ma anche l’America. Come vedevate l’America allora e come la vedi oggi?

L’America era il centro dell’impero con il quale dovevamo comunque rapportarci. Marziale era nato vicino a 80

Segovia e Seneca a Siviglia ma entrambi si sono rapportati con la letteratura latina e sono andati a Roma.

Noi siamo andati, almeno metaforicamente, in America, perché si era creato un tale sincretismo culturale che non potevamo prescinderne.

In America nei primi anni del Novecento si era sviluppato il nuovo linguaggio del cinema, in America negli anni Cinquanta nasceva il rock ‘n roll, che miscelava ritmi neri e il folk bianco. L’America aveva creato ibridi di ogni genere. L’importante, per noi, era guardare al modello americano ma poi metabolizzarlo, farlo nostro senza riprodurlo pedissequamente. Metterci dentro del nostro, come avevano fatto gli Stones, i Pink Floyd e i Jethro Tuli, come avrebbero fatto gli U2, i Pogues di Shane MacGowan, i Waterboys di Mike Scott. Per noi, insomma, l’America era il Grande Laboratorio. Guardavamo all’America mantenendo un gusto europeo, come aveva fatto Sergio Leone. O

come avrebbe fatto poi Wim Wenders.

Noi invidiamo a loro l’invenzione di tanta cultura contemporanea, loro invidiano a noi la Storia e l’Arte, il nostro essere figli del Medioevo e del Rinascimento. Quando parlai con Lou Reed, che si trattene qualche giorno a Conegliano, vicino a Treviso, per un reading, lui mi diceva che non capiva come mai noi italiani che siamo i figli del Rinascimento, fossimo così bravi e riconosciuti nel design e nella moda e in tanta pura creatività e invece nella musica non riuscissimo a essere così importanti e decisivi.

Per quasi quattrocento anni, tra il Trecento e il Settecento, Venezia è stata una specie di New York europea, la città dove tutti andavano principalmente per affari, ma anche per capire le novità sull’ottica o nella moda, nell’arte vetraria e nelle nuove tecnologie, nella musica, nel tea81



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